Era sera nel giorno di festa e la lampada della villa splendeva, prigioniera fra volute di ferro battuto, mentre l’ombra di tutte le cose si sdraiava lenta sul selciato. Tutt’una era la volta del cielo, l’aria, poi il campo poco distante coperto dal gelo. E dal vetro riluceva la sagoma sua; nella stanza mogano e velluto, si specchiava. Nato quaggiù io l’ammiravo; senza parole per poterla incantare; senza canzoni da poterle cantare; solo guardando le dita su fragili melodie, vivevo.
Mi creò per gioco, nella solitudine del pomeriggio, scegliendo accorta l’angolo più in ombra di tutto il giardino affinché potessi sopravvivere. Appariva e scompariva il suo sorriso dietro il mandorlo: il viso intorpidito, i boccoli di grano, il sogno ancora intatto di un’esistenza lieve.
Così plasmò il mio corpo con neve appena scesa, modellando le forme, inventando i colori, mentre i cani abbaiavano lontano e il campanile, nel silenzio di pietra, la luce dietro il monte, si vestiva di corvi.
Mi diede un naso finto, due occhi senza fondo, una bocca irrigidita incapace di baciare. Estasi la sua cura; delizia la premura di una lana che mi copriva la testa gigantesca. Sparì nella penombra del tramonto traballando su passi incerti e poi per caso, per sbaglio, alla stessa finestra riapparve, avvolta dal tepore, incorniciata dai drappi delle tende. Avidamente spiai ogni gesto; rubai le iridi verdi, il rossore del sangue alle gote, le note sporche e divine della viola.
Intanto, gonfiandosi, il fumo cresceva dal camino e la notte si infiltrava nello spazio, riempiendo i vuoti. Si annidava fra le rughe dei tronchi, strisciando sotto gli usci e tra gli stipiti, colmando l’aria bianca di materia viva, di peso, di buio. Quando finalmente la fiamma della candela, contorcendosi rapida, si arrese alla fine, tutto tacque, divenne tenebra, immensa.
Tempo: nessuno. Immobile sul pensiero perenne, cristallizzato di lei, sentendo un cuore inesistente pompare, nella speranza di poter rimanere. Ma giunse l’alba; dalle creste sfumate timida si sporse e un vento remoto travolse la terra quando dall’alto le foglie incominciavano a ballare.
Acre l’odore di polvere da sparo.
Marce serrate dal cancello di sinistra.
Sole gracile che scioglie le membra su carote di mercato tra i ciuffi dell’erba.
Marce vicine sulle mura di destra.
Stivali macchiati dal fango sommerso.
Geometrie tristi su fasce di rosso.
Terrore di sagome nere in fila per due.
Fruscio di speranza nei rovi del biancospino, nel vezzo dell’andatura morbida e segreta. Nella sottoveste riconobbi l’accenno fine del pizzo; fra le mani rapito lo strumento d’abete, custodito, difeso, salvato dalla furia. La vidi deporlo fra le radici mute, e poi mai più. Scappare alla vita mentre io mi scioglievo. Così, beato, guardavo i petali d’acqua densa posarsi sulle corde; iniziare a suonare, svanendo con lei.

 

Sara Spinicchia

Illustrazione di Viktoriya Dyrda

È come il rumore della neve.
Il sapore di te.
Leggero, dolce , ovattato.
Ricopre tutto.
I miei sensi sopraffatti da te.
Ogni istante scandito
Dai tuoi battiti ,
come fiocchi di neve
S’adagiano leggeri.
E come lo sguardo
Sulla città innevata,
Sono perso in te.
È come il rumore della neve,
L’inizio di noi.

 

Sergio Cambi

Illustrazione di Samuele Gabbanini

Sinfonia

Parte
in silenzio
dalla sua casa di cotone
appuntata al cielo.
Suona
gli aghi dei pini
che frusciano
al ritmo del vento.
Balla
sui petali dei cuori
che scoppiettano
nei camini dei sogni spenti.
Si scioglie
sulle labbra
che piegano gli angoli
per cantare note
al profumo di cannella.
Sentila!
Ricama cosí
notti magiche
vestite di bianco
che scendono lente
e abbracciano noi.

 

Jelena Dzankic

Illustrazione di Ylenia Romoli

Il rumore della neve

Tu eri parte di me,
Come io ero parte di te.
Non importa se ora non siamo più noi
Saremo sempre accanto.
Quando gelerai fuori nel mondo
Sentirai sempre un tepore dentro,
Anche nel buio delle notti più nere.
Quando sentirai sulle guance
il morbido e fresco tocco di batuffoli bianchi
saprai che non sei più solo.
Tu sei parte di me,
Come io sono parte di te.
Per quanti passi possano dividerci
Saremo sempre accanto.
Quando sentirai che sta nevicando dentro
Non potrai gelare mai.
Ascolta il rumore della neve
Soffice, fiocca avvolgendoti
E come un tenero abbraccio
Ti dona il calore di cui hai bisogno.

 

Sara Innocenti

Illustrazione di Ylenia Romoli

Rimaneva sempre meravigliato di fronte alla capacità della neve di assorbire il marrone delle ciminiere circostanti. Il paesaggio lasciava alquanto a desiderare…
La zona poteva definirsi industriale, con il fumo che sembrava avvolgere tutto e tutti al punto che la respirazione stessa si faceva difficile.
Martin era assurto al grado di capitano al costo di considerevoli sacrifici personali e adesso, la tazza di caffè ancora rovente sulla scrivania, si accingeva a scrivere una lettera alla sua amata Isabel, che aveva conosciuto in un caffè londinese poco prima di essere spedito in uno sperduto avamposto francese nel ’43:
Mia adorata, Spero che questa mia ti trovi al meglio della forma. Qui nevica e fa freddo. Siano lodati i nostri pastrani che ci tengono al caldo proteggendoci dalle intemperie e avvolgendoci con la naturalezza di una seconda pelle.
Nella baracca che condivido con Christopher (che conoscerai) abbiamo poche essenziali comodità fra cui un camino per riscaldarci, una caffettiera, scorte di viveri, due poltrone di cuoio, una scrivania e una macchina da scrivere perfettamente funzionante (con tanto di bobine di scorta). Leggiamo entrambi moltissimo.
Passo molto tempo a scrutare il paesaggio innevato dalla finestra, a volte avvalendomi dei cannocchiali in dotazione, con cui posso mettere a fuoco un fiocco di neve in ogni suo minimo dettaglio.
Infatti la neve mi affascina e Christopher e io riusciamo a udire distintamente il suono dei fiocchi che ticchettano sul tetto di lamiera, i nostri uditi essendosi acutizzati per necessità durante la guerra. Il suono dei fiocchi che cadono a intervalli regolari, quasi riecheggiassero i battiti del cuore, mi rassicura e scandisce il passare del tempo che mi separa dal rivederti.
Non manca molto ormai, amore mio…
Ti amo, adesso e sempre,
M.
Considerate le sfide che si ritrovavano ad affrontare i servizi postali all’alba del ’45, la risposta di Isabel non tardò ad arrivare:
Mio adorato,
Vengo dal ricevere la tua missiva: non sono mai stata così felice in vita mia! Nevica anche qui. I fiocchi insistenti, come corteggiatori che non si arrendano, cadono sui nostri volti rivolti al cielo. La
loro cadenza regolare riflette i battiti dei nostri cuori mentre i nostri pensieri volgono a voi e ai vostri sacrifici per lo sforzo bellico. Ogni fiocco di neve che si disintegra sulla mia fronte dolcemente riflette un momento passato insieme a te, amore mio, e la dolcezza del suo frangersi echeggia il tatto soave delle tue dita.
Il rumore della neve ci unisce amore mio, come due anime legate indissolubilmente e per sempre.
Ti amo anch’io, adesso e sempre,
I.
Martin e Isabel continuarono a scambiarsi lettere fino all’inverno del ’45, quando il suono della neve scandì il ritorno dell’uno fra le braccia dell’altra.

 

Alessandro Michel

Illustrazione di Ylenia Romoli

Il rumore della Neve

Si erano divisi in due squadre: Matteù e Geremia da un lato, il Cantonese e Anselmo dall’altra. Facevano un turno di attacco e uno di
difesa. Chi difendeva si metteva a carponi in terra, con la neve in faccia e il sedere alzato. Chi attaccava invece, doveva correre e saltare
gli avversari. Anselmo con un balzo potente superò Matteù e Geremia, poi si sollevò con il dito medio alzato. “Affanculo dovete andare, becchi!”. Il Cantonese esultava, e per marcare il vantaggio, tirò un bel petardo. “I soliti ladri” fece Matteù scuotendo la testa.
Ma l’euforia del vantaggio fu neve al sole. Anselmo vide i suoi amici farsi impettiti e seri in volto. Si voltò. La porta era aperta, ed era appoggiato sulla soglia un uomo basso e tozzo, che se ne stava in una posa impossibile, con la gamba destra puntata ad angolo, e le mani dietro la testa, schiacciate tra la nuca e lo stipite. Queste mani sporgevano, erano sproporzionate e forti e muscolose, tipiche di chi lavora il legno. Anselmo deglutì. “Non sta bene” sentenziò l’uomo. “Ci spiace” balbettò Matteù “ma è domenica mattina, e a Belleville stanno tutti preparando per la festa di stasera. Non ci fanno fare né toccare niente, e cerchiamo un posto dove giocare. Chiediamo scusa se abbiamo disturbato, ci spostiamo”. Giovanni li scrutava tutti e quattro. Inaspettatamente, abbozzò una specie di sorriso.
“Non sta bene giocare qui. La neve non è abbastanza alta, spalo tutte le mattine. Potete farvi male”.
Si avvicinò a loro, e con un paio di colpetti secchi pulì la spalla di Anselmo. “Insieme a mio fratello stavo con le mani in mano come voi prima delle feste. Allora cercavamo di andare dove fa più rumore la neve.”
Si schiarì la voce. “Via su per il sentiero” indicando un pendio oltre la casa “e diritti fino alla Chiesetta di San Giorgio. Ci siete stati?”.
“Molti anni fa, d’estate che c’era pieno di cavallette” rispose Matteù.
“Oh, lì potete fare tutto il baccano che avete in corpo. Parola di Giovanni. Se avessi le vostre gambe verrei anche io”.
I quattro non chiesero altro, e come fossero sotto un incantesimo, lo salutarono e si avviarono.
“È stato gentile” disse Matteù sistemandosi il paraorecchie.
“Meglio per lui. Perché se diceva qualcosa, lo stendevo” tagliò Anselmo.
Geremia si fermò, e annusò intorno.
“Ragazzi, è morto un cinghiale qui. Anzi aspettate, no, sono le mutande di Hans”.
Risero.
“Siamo stati foltunati.” precisò il Cantonese “Un po’ tocco quel Giovanni”. “Sapete come lo chiama mia madre?” disse Geremia “Lo Stregatto. Visto come stava mentre parlava?”.
“Ha lagione, polca tloia” rispose il Cantonese “somilia allo Stlegatto. Caltone di melda”.
“Chin chan pai non raccontare balle, solo perché lo guardi con le mani davanti agli occhi” tagliò Anselmo, cercando lo sguardo degli altri. Il sentiero faceva una esse e lasciava strisce e solchi dove passavano. Non erano saliti molto che faceva capolino tra le fronde il profilo possente del Dragun, come una presenza scomoda, che graffia e pazienta e se ne sta lì.
Al laboratorio, Giovanni era concentrato sul pezzo di acero che incideva a colpi di mazzuolo sul cesello. Una volta finita l’avrebbe sistemata
su una delle tre mensole che correvano lungo le pareti del laboratorio, destinate ad accogliere le statue. Rientrava nella dozzina di pezzi da consegnare alla Curia entro la fine del mese, insieme ad una Bernadette, ai pastori, alle pecore, e al papa. C’era anche
una figura che non rientrava nel gruppo, coperta da un telo bianco: era un San Maurizio in abiti militari, un lavoro per una guida alpina appena ventenne, morta in un ghiacciaio vicino San Giorgio. Giovanni l’aveva lasciata lì, ancora da finire: non era chiaro chi pa
gasse, se la famiglia o gli amici. “Mi credono uno stupido” pensava a voce alta “il benefattore della valle, con la schiena incurvata dalla carità cristiana”. Fermava la mano, appoggiava gli strumenti e accarezzava la guancia che sbalzava dal legno. Doveva ancora levigare, era ancora troppo dura e informe, dura ma umana. Lo scultore contemplava la sua creazione, in silenzio. Stava venendo davvero bene.
“Cazzo ma qui è bellissimo!” urlò Geremia.
“Non ti fale incantale da panolama” fece il Cantonese con piglio confuciano “semple stessa valle di melda, vista da posto divelso”. Un po’ sudati, e con la gola secca i ragazzi erano arrivati alla fine del sentiero. San Giorgio li aspettava, e sotto quel cielo e tutta quella neve assumeva le fattezze di un braccio di ferro tra il credo invisibile dei pellegrini e la statuaria presenza della natura. La struttura lignea sorreggeva un piccolo campanile, alto una decina di metri, e una cappella esterna. C’era un muretto, completamente sommerso dalla neve, a circondare il perimetro. I ragazzi lo scavalcarono rapidamente. “Ora che mi ricordo, prima non ti ho picchiato abbastanza”.
Anselmo crollò addosso a Geremia, e il Cantonese fece partire una pioggia di schizzi gelidi sopra i corpi azzuffati. Stanco dalla neve alta e incuriosito da quel luogo così diverso da come lo ricordava, Matteù si allontanò un poco, quanto bastava per fermarsi
subito. “Ragazzi, venite subito qui”. Un abete, forse vecchio e malato e appesantito dal peso della neve si era staccato dal bosco ed era rotolato verso l’entrata posteriore della Chiesetta. La spinta del tronco aveva fatto saltare la serratura della porta, che rimaneva socchiusa.
“Si può entrare! Venite!” urlò Geremia. Con un paio di spinte, furono dentro. Superarono l’ingresso violato, che raccoglieva un brodo di schegge e neve. Scivolarono sotto alle tavole dipinte, davanti alle vite dei santi ad alta quota, con quei blu e quei rossi placcati
che presidiavano le pieghe delle vesti. Le scale del campanile risuonavano di scricchiolii, e terminavano su una botola. Anselmo aprì. La campana era alta sulle loro teste. I ragazzi subito si schiacciarono al parapetto: il Dragun appariva spaventosamente vicino
adesso. Un molarone dalla cresta aguzza e azzurra. Si vedeva anche Belleville, illuminata a festa, circondata dalle le linee delle piste. “Beh? Da mia tellazza si ha vista di monte dietlo più glande” fece il Cantonese, rompendo il silenzio. “Si ma tu sei abituato all’Himalaya…”.
“Giovanni sei uno stronzo!” urlò Anselmo. “Sei uno stronzo! Sei uno stronzo!” rispose l’eco.
“Fottuto Stregatto!”
“Stregatto, stregatto, stregatto!”.
“L’eco è gran cosa.” Constatò Geremia “Andrebbe sfruttato per una gara di rutti”.
Il ragazzo dagli occhi a mandorla sorrise, senza darsi vedere, tirò fuori dalla tasca una specie di sigaro farcito di polvere nera, e lo appoggiò sul parapetto. Con un movimento rapido, quasi uno schiocco delle dita, accese un cerino che accostò allo strano incarto di ideogrammi.
“Lagazzi, involtino plimavela è selvito”.
Matteù scorse la miccia sbrilluccicare.
“Via, via!”.
Mentre i ragazzi scendevano le scale a rotta di collo, si udì uno scoppio sordo. Il suono rientrò in alto, dentro il corpo della campana, facendola vibrare, facendo vibrare le chiome degli abeti e dei larici vicini, le tane, le torri lontane, i ghiacciai. Poi, il silenzio dell’inverno. Poi, la somma di tutti i tronchi che schiantavano all’unisono. La freccia di pietra, alberi e tonnellate e tonnellate di neve montava come una panna letale sul versante opposto. Il Dragun aveva deciso di venire anche lui alla festa, stanco di rimanere tutti gli anni a guardare dalla vetta, come un vicino tonto.
“Ecco fatto”.
Giovanni aveva terminato i lineamenti del viso. La parte più difficile, espressiva, seducente. Ma non capiva come mai quel San Michele avesse un sorrisetto beffardo. D’altronde, glielo aveva messo lui. Stava per prendere gli arnesi in mano, quando le statue cominciarono a scuotersi e a cadere dalle mensole. “Quei piccoli bastardi… già di ritorno?” Giovanni si sporse alla finestra del laboratorio. Non ebbe neanche il tempo per una preghiera, che era già all’uscio, assordante, il rumore della neve.

 

Guido Landini

Illustrazione di Samuele Gabbanini

Io sono innocente, lo giuro.
Mi hanno incastrato, mi hanno scambiato per un altro!
Non mi chiamo Willy… io sono Jhonny!
Non avrei motivo di mentire a voi, che non so neanche chi siate,chissà se mai mi ascolterete.
Siamo in tanti ad essere innocenti qui.
Magari ho fatto le mie marachelle, ma l’ergastolo?
Non lo meritavo per qualche furto, robette da nulla.
Espio una vita che appartiene a voi. Sconto colpe non mie.
Da sempre.
Al gabbio ci son finito in una notte d’inverno,come questa.
C’era la neve, come oggi, come il giorno in cui son nato ed ho iniziato a banchettare su questa discarica chiamata vita.
Lo riconoscete voi il profumo della neve? O il suo rumore?
Io si.
Credo.
Sono ormai anni che sto dentro quindi non ci posso scommettere.
I sensi si arrugginiscono come molle di un letto, diventa tutto un cigolio, ad ogni gesto.
Il puzzo di piscio impregna le narici oltre ai muri, tutti a marchiare il loro territorio come cretini!
Sto impazzendo qui dentro, sogno di correre tutte le notti.
E dormo, dormo così tanto solo per potermi sgranchire un po’ .
Nel giorno di visita so che nessuno verrà a chiedere di me, sono vecchio e di amore ne ho avuto uno.
Anna.
Sorprendente l’effetto dell’amore su chi ne è sempre stato digiuno.
Come quando arriva la prima neve.
Sorprendente l’effetto dell’amore quando improvvisamente ti viene negato.
La delusione di quando invece piove.
Mai provare così tanto mi ha ridotto a così poco; nessuna prigione, nessun inverno.
Come sentire la neve cadere sopra ogni organo, coprirli di un sonno senza fine.
Un fiume in piena che sfonda ogni argine e porta via con sé ogni sorriso, ogni felicità; foglie catturate in un turbinio di fango.
Tutto contaminato.
Il giorno in cui mi presero stavo correndo via, da questi uomini che volevano la mia vita per motivi a me incomprensibili.
E ce l’avrei fatta a scappare, come sempre.
Non fosse che.
C’erano due come noi, a guardare la fontana lì in piazza Fallaci.
Seduti sulla panchina, lei lo carezzava dietro l’orecchio.
Neve a cumuli intorno,si scaldavano di un fuoco solo loro.
E poi, con una purezza propria di chi non sa di essere osservato, lo ha baciato sulla testa.
C’era una naturalezza,un’autenticità, un affetto, così palpabile che mi stordì.
Vi ricordate quando da piccoli giocavate a rincorrervi per strada e poi vi fermavate a schiacciare la faccia contro la vetrina del fornaio?
Mi sono paralizzato.
E la storia va come un boomerang, se non ti mette al tappeto alla prima guardati le spalle.
Un battito di ciglia e mi son trovato a chiedere clemenza a voi nella mia testa.
Ma che ve lo racconto a fare tutto questo? Come potete capire, voi che non avete mai ululato alla luna?
Non potete.
io resto ad abbaiare alla vita che mi ha voluto qui.
Mentre con il muso appanno la vetrina del futuro che avrei potuto avere .

 

Sveva Nonni

Illustrazione di Samuele Gabbanini & Ylenia Romoli

(S)coprendo ricordi

Tremano le mani
che intrecciano la lana,
ricompongo i nodi della mia vita.
Sprofonda un sorriso
in onde di rughe.
Occhi luminosi
come il sole che riflette al suolo innevato.

Lenta cade
Silenzio
Ricorda.

Un fruscio
Vento
Foglie secche infreddolite.

Uno scoppiettio
Fuoco
le riscalda.

Ѐ  caldo
il mio vecchio cuore.

Ho intrecciato tutti i fili
e  ora ho una coperta di ricordi.
Indolente mi adagio
come la neve si posa a terra.
Con le mani tremanti
non resta che addormentarmi
coccolando ciò che resta
del mio manto d’Amore.

 

Elena Massarelli

Illustrazione di Viktoriya Dyrda