Si erano divisi in due squadre: Matteù e Geremia da un lato, il Cantonese e Anselmo dall’altra. Facevano un turno di attacco e uno di
difesa. Chi difendeva si metteva a carponi in terra, con la neve in faccia e il sedere alzato. Chi attaccava invece, doveva correre e saltare
gli avversari. Anselmo con un balzo potente superò Matteù e Geremia, poi si sollevò con il dito medio alzato. “Affanculo dovete andare, becchi!”. Il Cantonese esultava, e per marcare il vantaggio, tirò un bel petardo. “I soliti ladri” fece Matteù scuotendo la testa.
Ma l’euforia del vantaggio fu neve al sole. Anselmo vide i suoi amici farsi impettiti e seri in volto. Si voltò. La porta era aperta, ed era appoggiato sulla soglia un uomo basso e tozzo, che se ne stava in una posa impossibile, con la gamba destra puntata ad angolo, e le mani dietro la testa, schiacciate tra la nuca e lo stipite. Queste mani sporgevano, erano sproporzionate e forti e muscolose, tipiche di chi lavora il legno. Anselmo deglutì. “Non sta bene” sentenziò l’uomo. “Ci spiace” balbettò Matteù “ma è domenica mattina, e a Belleville stanno tutti preparando per la festa di stasera. Non ci fanno fare né toccare niente, e cerchiamo un posto dove giocare. Chiediamo scusa se abbiamo disturbato, ci spostiamo”. Giovanni li scrutava tutti e quattro. Inaspettatamente, abbozzò una specie di sorriso.
“Non sta bene giocare qui. La neve non è abbastanza alta, spalo tutte le mattine. Potete farvi male”.
Si avvicinò a loro, e con un paio di colpetti secchi pulì la spalla di Anselmo. “Insieme a mio fratello stavo con le mani in mano come voi prima delle feste. Allora cercavamo di andare dove fa più rumore la neve.”
Si schiarì la voce. “Via su per il sentiero” indicando un pendio oltre la casa “e diritti fino alla Chiesetta di San Giorgio. Ci siete stati?”.
“Molti anni fa, d’estate che c’era pieno di cavallette” rispose Matteù.
“Oh, lì potete fare tutto il baccano che avete in corpo. Parola di Giovanni. Se avessi le vostre gambe verrei anche io”.
I quattro non chiesero altro, e come fossero sotto un incantesimo, lo salutarono e si avviarono.
“È stato gentile” disse Matteù sistemandosi il paraorecchie.
“Meglio per lui. Perché se diceva qualcosa, lo stendevo” tagliò Anselmo.
Geremia si fermò, e annusò intorno.
“Ragazzi, è morto un cinghiale qui. Anzi aspettate, no, sono le mutande di Hans”.
Risero.
“Siamo stati foltunati.” precisò il Cantonese “Un po’ tocco quel Giovanni”. “Sapete come lo chiama mia madre?” disse Geremia “Lo Stregatto. Visto come stava mentre parlava?”.
“Ha lagione, polca tloia” rispose il Cantonese “somilia allo Stlegatto. Caltone di melda”.
“Chin chan pai non raccontare balle, solo perché lo guardi con le mani davanti agli occhi” tagliò Anselmo, cercando lo sguardo degli altri. Il sentiero faceva una esse e lasciava strisce e solchi dove passavano. Non erano saliti molto che faceva capolino tra le fronde il profilo possente del Dragun, come una presenza scomoda, che graffia e pazienta e se ne sta lì.
Al laboratorio, Giovanni era concentrato sul pezzo di acero che incideva a colpi di mazzuolo sul cesello. Una volta finita l’avrebbe sistemata
su una delle tre mensole che correvano lungo le pareti del laboratorio, destinate ad accogliere le statue. Rientrava nella dozzina di pezzi da consegnare alla Curia entro la fine del mese, insieme ad una Bernadette, ai pastori, alle pecore, e al papa. C’era anche
una figura che non rientrava nel gruppo, coperta da un telo bianco: era un San Maurizio in abiti militari, un lavoro per una guida alpina appena ventenne, morta in un ghiacciaio vicino San Giorgio. Giovanni l’aveva lasciata lì, ancora da finire: non era chiaro chi pa
gasse, se la famiglia o gli amici. “Mi credono uno stupido” pensava a voce alta “il benefattore della valle, con la schiena incurvata dalla carità cristiana”. Fermava la mano, appoggiava gli strumenti e accarezzava la guancia che sbalzava dal legno. Doveva ancora levigare, era ancora troppo dura e informe, dura ma umana. Lo scultore contemplava la sua creazione, in silenzio. Stava venendo davvero bene.
“Cazzo ma qui è bellissimo!” urlò Geremia.
“Non ti fale incantale da panolama” fece il Cantonese con piglio confuciano “semple stessa valle di melda, vista da posto divelso”. Un po’ sudati, e con la gola secca i ragazzi erano arrivati alla fine del sentiero. San Giorgio li aspettava, e sotto quel cielo e tutta quella neve assumeva le fattezze di un braccio di ferro tra il credo invisibile dei pellegrini e la statuaria presenza della natura. La struttura lignea sorreggeva un piccolo campanile, alto una decina di metri, e una cappella esterna. C’era un muretto, completamente sommerso dalla neve, a circondare il perimetro. I ragazzi lo scavalcarono rapidamente. “Ora che mi ricordo, prima non ti ho picchiato abbastanza”.
Anselmo crollò addosso a Geremia, e il Cantonese fece partire una pioggia di schizzi gelidi sopra i corpi azzuffati. Stanco dalla neve alta e incuriosito da quel luogo così diverso da come lo ricordava, Matteù si allontanò un poco, quanto bastava per fermarsi
subito. “Ragazzi, venite subito qui”. Un abete, forse vecchio e malato e appesantito dal peso della neve si era staccato dal bosco ed era rotolato verso l’entrata posteriore della Chiesetta. La spinta del tronco aveva fatto saltare la serratura della porta, che rimaneva socchiusa.
“Si può entrare! Venite!” urlò Geremia. Con un paio di spinte, furono dentro. Superarono l’ingresso violato, che raccoglieva un brodo di schegge e neve. Scivolarono sotto alle tavole dipinte, davanti alle vite dei santi ad alta quota, con quei blu e quei rossi placcati
che presidiavano le pieghe delle vesti. Le scale del campanile risuonavano di scricchiolii, e terminavano su una botola. Anselmo aprì. La campana era alta sulle loro teste. I ragazzi subito si schiacciarono al parapetto: il Dragun appariva spaventosamente vicino
adesso. Un molarone dalla cresta aguzza e azzurra. Si vedeva anche Belleville, illuminata a festa, circondata dalle le linee delle piste. “Beh? Da mia tellazza si ha vista di monte dietlo più glande” fece il Cantonese, rompendo il silenzio. “Si ma tu sei abituato all’Himalaya…”.
“Giovanni sei uno stronzo!” urlò Anselmo. “Sei uno stronzo! Sei uno stronzo!” rispose l’eco.
“Fottuto Stregatto!”
“Stregatto, stregatto, stregatto!”.
“L’eco è gran cosa.” Constatò Geremia “Andrebbe sfruttato per una gara di rutti”.
Il ragazzo dagli occhi a mandorla sorrise, senza darsi vedere, tirò fuori dalla tasca una specie di sigaro farcito di polvere nera, e lo appoggiò sul parapetto. Con un movimento rapido, quasi uno schiocco delle dita, accese un cerino che accostò allo strano incarto di ideogrammi.
“Lagazzi, involtino plimavela è selvito”.
Matteù scorse la miccia sbrilluccicare.
“Via, via!”.
Mentre i ragazzi scendevano le scale a rotta di collo, si udì uno scoppio sordo. Il suono rientrò in alto, dentro il corpo della campana, facendola vibrare, facendo vibrare le chiome degli abeti e dei larici vicini, le tane, le torri lontane, i ghiacciai. Poi, il silenzio dell’inverno. Poi, la somma di tutti i tronchi che schiantavano all’unisono. La freccia di pietra, alberi e tonnellate e tonnellate di neve montava come una panna letale sul versante opposto. Il Dragun aveva deciso di venire anche lui alla festa, stanco di rimanere tutti gli anni a guardare dalla vetta, come un vicino tonto.
“Ecco fatto”.
Giovanni aveva terminato i lineamenti del viso. La parte più difficile, espressiva, seducente. Ma non capiva come mai quel San Michele avesse un sorrisetto beffardo. D’altronde, glielo aveva messo lui. Stava per prendere gli arnesi in mano, quando le statue cominciarono a scuotersi e a cadere dalle mensole. “Quei piccoli bastardi… già di ritorno?” Giovanni si sporse alla finestra del laboratorio. Non ebbe neanche il tempo per una preghiera, che era già all’uscio, assordante, il rumore della neve.
Guido Landini
Illustrazione di Samuele Gabbanini